Appunti e aneddoti.

Quotidianità nel Borgo vecchio. Appunti e aneddoti






Anche se per noi città alta era la “Città” per antonomasia, in contrapposizione con città bassa, ol Borch (il Borgo), la vita quotidiana era simile a quella di una grossa borgata o, meglio ancora, di un grosso paese.

Le conoscenze non si limitavano alla via ma comprendevano, anche se non intimamente, la popolazione residente: amicizie di genitori con altri genitori, ragazzi e ragazze con altri ragazzi e ragazze, molte delle quali, le amicizie, dovute alla frequentazione della stessa scuola o dei diversi luoghi di gioco. L’esempio tipico era il prato della Fara, con il suo campo di pallone, frequentato anche da ragazzi provenienti da via Pignolo o da Borgo Santa Caterina (in buona sostanza, dal Borch).

I principali negozi, inoltre, erano disseminati lungo la Corsarola, partendo da Piazza Mercato delle Scarpe, (stazione d’arrivo della funicolare), seguendo via Gombito sino a Piazza Mascheroni passando da Piazza Vecchia e da via B. Colleoni.

In via Porta Dipinta, dove abitavo, vi era un tabaccaio che vendeva anche pane e prodotti alimentari, un lattaio, la latteria di mio nonno, e un fruttivendolo, ma se era necessario acquistare prodotti migliori ci si doveva rivolgere ai negozi della Corsarola, iniziando dalla Panetteria Nessi. Sovente per tali acquisti erano incaricati i ragazzi, con tanto di nota della spesa, che scarpinavano su per via Porta Dipinta ed eseguivano la mansione senza temere di essere mal serviti dai negozianti.

Chel dell’insalata “russica”

Attorno agli anni cinquanta, il salumiere che apriva le sue vetrine poco dopo il panificio Nessi (non rammento il nome), iniziò a preparare ed esporre una novità, l’insalata russa, compatta e avvolta nella gelatina trasparente, che veniva  affettata su richiesta.  Divenne una golosità di famiglia, seppure in porzioni molto limitate.

L’incaricato dell’acquisto era il sottoscritto che con passo spedito e con la prospettiva di assaggiare quella prelibatezza, si recava in salumeria. 

“Una fettina d’insalata russa” - ordinavo al salumiere, e quello immancabilmente, dopo aver tagliato la fettina in base al denaro che avevo appresso, rispondeva - “Ecco la tua insalata “russica”, -  e con un sorriso mi salutava. Nella mia memoria, ancor oggi quando la vedo in tavola, mi sorprendo a dire “Oggi insalata russica”!

Il Seminarino di don Carlo

Lo scoprii grazie al passaparola di altri amici che già lo frequentavano. Era, in buona sostanza, l’unico Oratorio di Città Alta che aveva un ottimo pregio: una proiezione cinematografica dopo l’ora di catechismo. Onestamente credo proprio fosse quest’ultima prospettiva ad allettarmi maggiormente anche perché, da quando obbligatoriamente avevo dovuto studiare a memoria le lezioni impartite dalle suore in preparazione della Prima Comunione e Cresima, in quel di Sant’Andrea, mi ero dato alla latitanza.

In verità, un altro appuntamento cui ero solito non mancare era quello dell’oretta di raccoglimento, nel periodo quaresimale, officiata da don Pierino, presso la chiesa del Pozzo Bianco, ma anche in tale occasione preponderante era la parte finale dell’oretta con la lettura del prete di alcuni brani di racconti missionari nell’India dei Tugs.

Tornando al Seminarino, ricordo il chiostro, dove si giocava al pallone prima che iniziasse l’ora di catechismo e ricordo ancora il viso del catechista che con molto impegno e severità spiegava i “Sette Peccati capitali”, le “Opere di misericordia corporali”, le “Virtù teologali” ecc., ecc.

Terminata la lezione, con don Carlo sempre presente all’uscita dalle aule, c’era l’ambito premio della proiezione cinematografica, passando, prima, ad acquistare qualche “stringa”, asabeso o qualche bacchetto di legno dolce. I temi dei film proiettati erano immancabilmente orientati sulle avventure di cowboy, con i soliti indiani cattivi da trucidare, oppure di cappa e spada. Ovviamente tutte le scene che potevano essere di “scandalo” per noi giovanissimi spettatori, erano preventivamente censurate (leggasi: tagliate).

Era la domenica di noi ragazzini di Città Alta specialmente nei mesi invernali quando i prati e i campetti da calcio erano inagibili.

Il Teatro Sociale


Il progetto per un nuovo teatro a Bergamo fu redatto da Leopoldo Pollack, allievo del Piermarini. Nacque col nome di Teatro della Società e aprì i battenti nella stagione di Carnevale del 1809 e, nelle intenzioni, avrebbe dovuto rivaleggiare con il Teatro Riccardi (l’attuale teatro Donizetti). La musica vi risuonò fino al 1929; gli ultimi spettacoli risalgono al 1932, poi l'abbandono e il degrado.

Alla Liberazione il Teatro Sociale e i locali adiacenti, nei quali si accedeva da Piazza Vecchia e precisamente dal portone che in seguito darà accesso alla Sede dell’Università degli Studi di Bergamo, erano stati occupati da una Sezione del Partito Comunista e il Teatro era stato destinato  saltuariamente a sala da ballo. Chi lo frequentava era additato come persona immorale e viziosa, ma queste definizioni erano prive di reali testimonianze poiché coloro che le esprimevano non avevano mai avuto occasioni per accedere ai locali. In buona sostanza era l’inizio di una piccola “guerra fredda” che partiva dai pulpiti delle chiese durante le messe e ripresi acriticamente dai fedeli.

Ricordo la figlia di un’amica di famiglia. spirito libero e appassionata del ballo. Frequentava la sala del Sociale sin quando si ammalò: tubercolosi, fu la diagnosi dei medici. Poco dopo morì. Tra i “benpensanti” di città alta circolò immediatamente il pettegolezzo che la causa della sua malattia e del successivo decesso era da attribuirsi alla frequentazione di quel luogo di vizio e di perdizione. Molto probabilmente le cause erano, al contrario, da ricercarsi nelle ristrettezze patite durante la guerra e nelle abitazioni malsane, situate in molti edifici di città alta.Verso gli anni cinquanta, l’Amministrazione Comunale si riappropriò dei locali e decise di riattivare il Teatro, affidando la gestione a un privato. La sala fu risistemata alla meglio con le poltroncine (si fa per dire) in platea, furono  riattivati alcuni palchi e venne destinata a sala cinematografica.

Il primo film che vidi, accompagnato da mio padre, fu “Passaggio a Nord Ovest”, una pellicola a colori del 1940, ambientata in Nord America durante la guerra Franco – Indiana.
Era l’alternativa al Seminarino, specialmente nelle giornate feriali e per il carattere delle proiezioni che non subivano controlli da parte del Vescovado e comprendevano soggetti e trame per un pubblico di adulti. Ma durò poco tempo.  Gli abitanti di città alta, forse ancora diffidenti, dopo che in precedenza il luogo era stato destinato a “sala da Ballo” comunista, non fu molto frequentato sino alla chiusura pochi anni dopo.

L’intervento di restauro, iniziato nel 2006 e completato nel maggio del 2009, ha riconsegnato alla città un teatro storico completamente recuperato. e agibile. Rimane il ricordo di quei palchetti rabberciati, traballanti e dipinti con decorazioni policrome consunte dal tempo.

Nel mio immaginario resta il cinema dove per la prima volta assistevo ad un film in tecnicolor:  "Passaggio a Nord Ovest" con Spencer Tracy e Robert Young. 

Le lavandaie di Paladina (I laandere dè Paladina)

Il lunedì era la giornata nella quale le lavandaie di Paladina, con il carretto, arrivavano in città per portare i panni lavati durante la settimana e ritirare quelli da lavare.
Città alta, pur essendo fornita di lavatoi pubblici, di cui uno ancora ben conservato e visibile in via Mario Lupo, accanto alla torre del Gombito, presentava difficoltà, per le massaie, nel trovare spazi per stendere la biancheria ad asciugarsi.

Conseguentemente molte famiglie si affidavano alle “lavandaie di Paladina” riponendo la biancheria in sacchi bianchi, utilizzando vecchie federe dismesse, per il lavaggio e l’asciugatura.

Le lavandaie percorrevano le principali vie della città e al loro apparire avveniva lo scambio del “pulito” con lo “sporco”, naturalmente pagando il dovuto per la prestazione. E tra uno scambio di biancheria pulita e di biancheria sporca, si spettegolava.

Da qui la consuetudine, (almeno tra i vecchi di Città Alta) di rivolgere a chi spettegola la frase: "Te set pès d'öna laandera dè Paladina." (Sei peggio di una lavandaia di Paladina).
Le ricordo molto bene perché a quel tempo, immediatamente dopo la guerra, ebbi modo di essere ospitato per una settimana proprio presso una di loro. Fui caricato sul carretto, durante il loro giro settimanale a Bergamo e nel pomeriggio arrivai, sdraiato tra i sacchi dei panni, a Paladina.

Rammento la casa dove fui ospitato, con tanti enormi "vasconi" rettangolari dove le lavandaie immergevano i panni, li lavavano e poi li stendevano per asciugarsi su cavi tesi nel prato. Un lavoro duro che doveva essere eseguito entro la settimana per ripetere il solito giro in città. Le loro prestazioni si esaurirono lentamente con l’avvento delle prime lavatrici elettriche finché negli anni sessanta terminarono definitivamente.

La ragazza dagli occhi azzurri

La incontravo spesso il mattino mentre mi recavo, da via Porta Dipinta, via Donizetti e Piazza Rosate, nella sede della Scuola Media “ Bernardo Tasso”.

Era una ragazzina, capelli biondi e occhi azzurri. Incrociandola i nostri occhi si cercavano prima di abbassarsi pudicamente verso terra: un attimo sufficiente a incontrare quegli occhi e, forse, arrossire.

Dopo pochi passi mi voltavo a osservarla e nuovamente mi accorgevo che lo stesso movimento del capo lo faceva lei e il cuore pulsava più velocemente. Cose da ragazzini, senza dubbio, ma che rimangono impresse nella memoria. Non ebbi mai il coraggio, o la sfrontatezza, non solo di fermarla ma nemmeno d’ardire un cenno di saluto. Bastavano quelle occhiate.

La persi di vista per qualche anno, finché un giorno, una domenica invernale in casa di amici che avevano organizzato un pomeriggio con musica e ballo, la incontrai di nuovo. Nuovamente ammutolii osservando quegli occhi azzurri che mi fissavano con un sorriso misto di stupore e di leggero sarcasmo, evidente presa in giro della mia timidezza.

Ricordo che indossavo un “montgomery” color carta da zucchero e lei, la biondina dagli occhi azzurri, mi chiese semplicemente che glielo lasciassi indossare, Annuii e rimasi nuovamente muto mentre lei, davanti ad uno specchio si osservava con attenzione. Mi ringraziò, mi restituì il montgomery e se ne andò a ballare.

Era svanito il momento magico e per me, che non ebbi il coraggio nemmeno di chiederle il nome, rimase “la ragazzina degli occhi azzurri”.

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