I giochi

I giochi
Città Alta, circondata dalle mura venete, è sempre stata un mondo a parte, rispetto a Bergamo bassa. La cerchia muraria era come una cortina storica che non lasciava penetrare, come una sorta di custode geloso, la frenesia, sia pure relativa a quei tempi, della città moderna ed economica. I pochi negozi esistenti erano esercizi di quartiere, le vetrine semplici esposizioni della poca mercanzia disponibile sul mercato e il traffico, ancorché ridotto e limitato a seguito delle vicende belliche e post belliche, era pressoché assente.
Qualche autoveicolo di famiglie agiate o nobili che in Città Alta risiedevano e i pochissimi autocarri che rifornivano la mercanzia agli esercizi pubblici, scandivano le ore della giornata a intervalli regolari: al mattino il camion del latte o di qualche ambulante che si attardava nelle piazzette della vecchia città, al pomeriggio qualche auto privata dei benestanti. Durante le altre ore della giornata, le vie erano deserte o percorse dalle donne che affollavano i negozi al mattino per la spesa giornaliera. 
Questa premessa per tratteggiare quali potevano essere i potenziali pericoli che noi ragazzini potevamo incorrere nei nostri “giochi di strada”.
 
Spazi verdi ed erbosi erano lo Spalto di Sant’Agostino, da noi chiamato semplicemente la Fara, e lo Spalto dell’Acquedotto, subito dopo la Porta di Sant’Agostino risalendo il viale delle Mura.
 
Il maggior affollamento di ragazze e ragazzi era sicuramente alla Fara, prato ampio e ricoperto da un’invitante erbetta nella parte di via Porta Dipinta e uno spazio adibito a campo di calcio verso la ex Chiesa, a quel tempo caserma militare.
Altri luoghi per giocare, oltre naturalmente alla “strada” erano le piazzette o i sagrati delle numerose chiese di Città Alta; in particolare, ove abitavo, il sagrato della Chiesa del Pozzo Bianco pavimentato con l’acciottolato.
Lo spazio si adattava molto bene la gioco della lippa che veniva posizionata sulla cancellata della Chiesa e lanciata verso la fontana di via Porta Dipinta.
Giochi da strada
La lippa.
Facile da costruire, bastava il manico di una vecchia scopa, tagliato opportunamente in due segmenti: uno piccolo con le estremità appuntite, l’altro, più lungo, da utilizzare come mazza per il lancio.
Si posizionava il pezzo piccolo sulla cancellata e con la mazza si dava un colpo energico ad una estremità lanciando il “missile” il più lontano possibile. Chi lo raccoglieva doveva rilanciarlo verso il battitore. Se lo colpiva vinceva il turno e passava alla battuta, in caso contrario si contava, con la mazza, la distanza dalla base e si sommavano i punti ottenuti. Vinceva chi otteneva minori punti, alla fine dei vari lanci.
I battitori più esperti . battevano leggermente sull’estremità del “missile” facendolo roteare e con maestria cercavano di colpirlo al volo infondendo, in tal modo, più forza e velocità al lancio e, conseguentemente, mandandolo più lontano possibile dalla base.
L’abilità di coloro che dovevano afferrare la lippa, magari al volo, era di afferrarla senza riceverla sulla testa; sarebbe stata una bella botta!
Il carburo
Sempre su quel sagrato, nel foro cieco di un chiusino di pietra, si giocava con il carburo. Una piccola dose nel buco, coperto con un barattolo metallico e una spruzzata di acqua. Il gas che si produceva sotto il barattolo, incendiato con un fiammifero,  lo faceva schizzare con un botto verso l’alto tra le urla e la soddisfazione dei presenti. Questo gioco era abbastanza pericoloso e solo ai più grandicelli era permesso partecipare.
Il carburo era un prodotto abbastanza rintracciabile perché durante la guerra, e nel successivo dopoguerra, veniva utilizzato per alimentare i fanalini anteriori delle biciclette. Le attuali “dinamo” erano una rarità.
Il cerchio
Il gioco più semplice e meno laborioso. Era sufficiente trovare tra i rottami di un qualsiasi laboratorio di riparazione cicli un cerchio privo di raggi. Poiché di biciclette ne circolavano tante, trovare qualche rottame da poter sistemare non era difficile.
Da costruire solo un “manico” sagomato, utilizzando del filo di ferro, per dirigere il cerchio nella direzione voluta.
Il gioco consisteva nello spingere il cerchio, gareggiando con gli amici, su un percorso stabilito. Molto ambito e faticoso per i meno allenati, era fare il “giro delle Mura”, partendo da Sant’Agostino, risalendo il viale dall’omonima Porta sino a Colle Aperto e ridiscendere dalla Boccola.
Per il traffico… .nessun problema, il pericolo eravamo noi.
Il carrettino
Il più complicato, anche se il più divertente, dei giochi da strada da costruire. Era l'antesignano del Soap Box.
Composto da una tavola di legno spessa almeno due centimetri. da tre o quattro cuscinetti a sfera, secondo il modello prescelto, e da un manubrio fissato con un perno per poter sterzare il veicolo.
Le dimensioni non dovevano essere eccessive al fine di poterlo trasportare sottobraccio sul luogo delle discese e, in caso di arrivo della Polizia Municipale, darsela a gambe senza doverlo lasciare sul posto del “crimine”.
I luoghi ove si svolgevano le gare tra ragazzi erano prevalentemente il Viale delle Mura o la Panoramica di San Vigilio ( la più difficile perché stretta e tortuosa), Le prove erano effettuate  lungo i marciapiedi che dalla Piazza della Funicolare scendevano lungo via Porta Dipinta. Il rischio lo correvano, ovviamente, i pedoni che si trovavano sul percorso.
Nella costruzione dell’infernale veicolo la principale difficoltà risiedeva nel trovare cuscinetti a sfera di dimensioni adeguate e non tanto danneggiati da consentire una certa velocità senza surriscaldarsi.
I freni erano costituiti dai nostri “piedi” che calzavano vecchie scarpe ormai da gettare oppure da zoccoli che cercavamo di adattare a mò di sandali.
Specialmente sui carrettini con tre cuscinetti a sfera (uno anteriormente e due posteriormente) precauzionalmente si cercava di recuperare un cuscinetto di maggiori dimensioni per l’anteriore in modo tale da tenere le mani il più lontano possibile da terra. Tuttavia, nonostante queste particolari attenzioni, qualche sbucciatura la si rimediava sempre con la conseguente lavata di capo dei genitori.
Ricordo una brutta avventura accaduta sulla Panoramica di San Vigilio. Con un amico, ciascuno con il proprio trabiccolo, si stava gareggiando quando, dopo una curva a gomito, ci siamo trovati davanti due Vigili Urbani che ci intimavano l’alt. La preoccupazione di essere portati al comando e, la maggiore, di vederci requisiti i mezzi ci fece fare una mossa da incoscienti.
Il muretto sul lato a valle separava la strada dalle ortaglie sottostanti alcuni metri ed era intervallato da aperture a volta. Con una tempestività miracolosa, sia il sottoscritto che l’amico che mi accompagnava, imboccammo ciascuno un’apertura e ci trovammo catapultati nell’ortaglia lasciando i Vigili Urbani esterefatti. Illesi entrambi afferrammo i nostri carrettini e ci dileguammo tra le piante da frutta correndo come dannati. I Vigili non ebbero il coraggio di rincorrerci e anche quella volta la passammo liscia. Da veri incoscienti miracolati.
Il Mondo
 
Preferibilmente giocato dalle ragazzine sui marciapiedi o nei cortili pavimentati con lastre di pietra o con cemento.
Si disegnavano dieci quadrati in file da tre con uno al vertice. Con delle “cialde” di pietra si partiva dal primo e saltellando su una gamba , sempre lanciando via via la cialda nel quadrato successivo, si cercava di arrivare all’ultimo quadrato, posto al vertice, senza calpestare i confini tracciati tra un quadrato e l’altro.
Gli “scatolini”
Altro gioco da marciapiede o da cortile era quello delle gare con gli “scatolini”, tappi metallici delle bibite nel cui interno venivano inserite per l’identificazione, utilizzando e colorando ritagli rotondi di carta, le maglie delle squadre di ciclismo che gareggiavano al Giro d’Italia o al Tour de France.
Si disegnava con il gesso il percorso e ogni ragazzo aveva a disposizione una propria squadra che con sapienti tocchi delle due dita, pollice e indice, spingeva in direzione del traguardo. Ciascuno aveva a disposizione tre tiri e al termine si redigeva l’ordine d’arrivo e la classifica generale. Il gioco si protraeva negli stessi giorni ufficiali delle vere gare ciclistiche. Le più belle gare,  cui ho partecipato, si svolgevano in un ampio cortile situato subito dopo la Trattoria del Pozzo Bianco in via Porta Dipinta.
Giochi da prato
Palla beis
Era una versione italianizzata , se così la si può definire, del baseball americano. Variante, con la palla, del gioco della lippa, meno pericoloso e violento perché utilizzava una palla, e molto più adatto alle ragazzine.
Dalla “base” si lanciava la palla, cercando di lanciarla lontano in modo che i giocatori della propria squadra guadagnassero le altre basi senza essere colpiti dagli avversari. Le squadre si alternavano nella battuta,  nel caso la palla fosse stata afferrata al volo dagli avversari.
Poche regole ma un buon divertimento per i giocatori.
Le biglie
Nel prato si scavavano circuiti dentro i quali venivano spinte le biglie, gareggiando con gli altri ragazzini. Il metodo di spinta era uguale a quello precedentemente descritto per il gioco con gli “scatolini”.
Altro gioco con le biglie consisteva nel lanciarle a turno contro un muro e se nel rimbalzo una biglia toccava quella dell’avversario quest’ultima diventava la preda conquistata.
Altri giochi
Sui prati erano possibili altri giochi tra ragazzi: il nascondino, il rincorrersi (detto anche il “toc”), la palla prigioniera; giochi che ancora oggi si vedono fare dai bambini e bambine nella bella stagione tra le urla e le risate dei partecipanti.
Naturalmente i giochi che ho descritto nella maggior parte dei casi si sono persi nella memoria; la mancanza di autonoma “manualità” e fantasia da parte dei piccoli e meno piccoli da un lato e le diverse disponibilità economiche delle famiglie ha fatto si che fosse  molto più facile trovarsi il giocattolo pronto e regalato togliendo il gusto dell’immaginazione e della soddisfazione di aver “costruito” personalmente il proprio divertimento.
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 


 


 












1 commento:

  1. ci sono passato per caso, bei ricordi e belle foto di un periodo che ho vissuto di persona, appena possibile ci ritorno.

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