Due vette su tre

Il 29 giugno 1967, seduti ad un tavolino dell'allora Trattoria "Il Pianone" , davanti ad un bianchino con amaro, studiavamo le cartine IGM per programmare l'escursione di fine settimana nella zona del Cevedale.
L'itinerario prevedeva la salita, da Peio in Val di Sole metri 1579, al Rifugio Mantova al Vioz e la prosecuzione verso il Vioz metri 3645, il Palon de la Mare metri 3703 e il Cevedale metri 3769.



Il programma si presentava entusiasmante e richiedeva due giorni di cammino, considerato il percorso misto roccette - ghiacciaio, con il panorama di cime che coronavano l'orizzonte; l'unico problema rimaneva l'apertura del Rifugio Mantova, prevista dopo il 10 luglio. Una telefonata al custode residente a Peio tuttavia ci aveva assicurato: ci avrebbe fornito le chiavi dell'invernale per trascorrere la notte al riparo.

Ben attrezzati per l'alta montagna, con un rifornimento sufficiente a renderci autonomi il tempo necessario, partimmo nel primo pomeriggio di sabato 1 luglio con l'inseparabile Lambretta, compagna di tante escursioni sulle montagne bergamasche e oltre.

La giornata era molto bella, assolata e il percorso stradale ci riservava splendide vedute della Val Camonica e, scollinando dal Tonale, della Presanella. Arrivati a Peio lasciammo lo scooter presso un albergo e affardellati ci dirigemmo all'abitazione del custode.
Prima sorpresa: il custode era assente. «E' andato a Vermiglio - ci disse  sua madre - ma dovrebbe tornare presto. Le chiavi del Rifugio le ha lui e si deve attendere il suo rientro!».
Erano quasi le diciassette e, calcolando in circa quattro ore il tempo di salita al rifugio, eravamo impazienti e delusi, tuttavia decidemmo di attendere ancora un poco. Alle diciotto, dopo una veloce consultazione con la cartina IGM, decidemmo comunque di partire. Avevamo individuato una baita al termine della pineta, a circa metà strada, che poteva assicurarci un riparo per parte della nottata, ripromettendoci di ripartire prima dell'alba per continuare l'escursione secondo i piani.

La baita era posta su una balconata dalla quale s'intravvedeva la Val Venezia e i ghiacciai della testata nord - est della valle. Il panorama, più tardi al chiaro di luna, divenne  fiabesco, straordinari il profilo delle vette e il luccichio dei ghiacciai il silenzio irreale mentre la fiamma del fornellino a meta, nel quale scaldavamo il latte condensato misto ad acqua, danzava colorata d'azzurro. In quelle poche ore che trascorremmo alla baita non riuscimmo a chiudere occhio. Sdraiati su un mucchio di fieno i nostri discorsi vertevano sempre sul percorso della giornata succesiva. Facemmo un ripasso delle difficoltà e delle precauzioni che intendevamo assumere non tanto per il superamento delle roccette, quanto per l'attraversamento del ghiacciaio che, ci avevano informato, presentava numerosi crepacci non sempre tempestivamente individuabili.

Non erano ancora scoccate le quattro del mattino e già eravamo in marcia alla luce delle pile. L'aria si era rinfrescata ma non ce ne accorgevamo e la salita procedeva spedita nonostante il costone fosse ripido e il sentiero non molto tracciato. All'alba eravamo in vista del rifugio dal quale ci separava un tratto del tracciato coperto di neve che non permetteva di utilizzare una corda fissata alla parete a strapiombo sulla valle. Ce la cavammo utilizzando la nostra corda e ponendoci in sicurezza alternativamente.

Trovato un precario rifugio sotto la scala che portava all'entrata del Rifugio, decidemmo di far colazione: altro latte condensato con neve sciolta nel padellino al calore del fornelletto, un panino con cioccolato e poi via per la parte più interessante. Inforchiamo gli occhiali da neve, prepariamo i ramponi e la piccozza e via.

La cima del Vioz è una facile punta rocciosa che non presenta alcuna difficoltà. mentre la discesa verso il Palon della Mare, rivolta a nord,  presentava  le prime lingue di neve e ghiaccio: ramponi e piccozza. La successiva salita alla vetta del Palon de la Mare ci accolse con un "gendarme" roccioso che richiese nuovamente la precauzione della messa in sicurezza. Tolti i ramponi, alternativamente il mio compagno e il sottoscritto iniziammo la breve scalata. Sulla destra la parete vertiginosa a strapiombo sulla Val Venezia sul fondo della quale s'intravvedeva il Rifugio Cevedale.

Superato il gendarme la lunga discesa sul ghiacciaio verso il Col de la Mare ai piedi dell'ultimo obiettivo: il Cevedale.

Il sole era caldo e lo strato di neve sopra il ghiaccio diventava sempre più molliccio. I piedi affondavano sino alle ghette e ogni ad passo la neve si pressava sempre più sotto i ramponi. Lozza, il compagno di cordata, rimaneva secondo e ad  ogni mia segnalazione di crepacci, individuati grazie alla luce azzurrina che venava il ghiacciaio, si metteva in sicura, affondando il più possibile la piccozza nella neve e avvolgendo tutt'intorno la corda che mi legava. Io procedevo verificando la larghezza della venatura azzurra e con un salto deciso la superavo mettendomi, a mia volta, in sicura per permettere al compagno di raggiungermi. E così via di passo in passo.

Ad un tratto, forse ingannato dalla luce trasversale del sole, improvvisamente mi sentii mancare la neve sotto gli scarponi e sprofondai sino alle ascelle in un buco. Il ponte di neve aveva ceduto e sotto di me si presentava una cavità scura. Fortunatamente Lozza aveva mantenuto la parte terminale della corda arrotolata al manico della piccozza che con un colpo deciso la infilò nella neve. Fui strattonato e, provvidenzialmente, rimasi in bilico poco distante dal labbro della voragine. Riuscii a riemergere e a issarmi sul bordo. Era andata bene.

Superato l'attimo di spavento, decidemmo, anziché puntare direttamente, di allargare il percorso che ci separava dal Colle de la Mare deviando a sinistra e facendo un giro più lungo. Altro tempo sprecato ma abbastanza sicuro.
Al Col de la Mare giungemmo poco prima di mezzogiorno, con un notevole ritardo sulla tabella di marcia che avevamo ipotizzato. L'imprevista sosta nella baita, la sera precedente, aveva influito concatenandosi con le disavventure della giornata e la prudente deviazione sul ghiacciaio, anche sulle nostre forze fisiche. Ormai avevamo esaurito anche le poche scorte alimentari sulle quali contavamo così, che dopo una breve consultazione, decidemmo di scendere lungo la vedretta de la Mare e appoggiarci sul Rifugio Cevedale in Val Venezia.
Anche questa discesa non fu semplice a causa dei numerosi seracchi e sfascioni rocciosi al termine della vedretta e arrivammo al Rifugio verso le quattordici affamati come lupi.
Mangiammo velocemente un piatto di pastasciutta e poi nuovamente in marcia per raggiungere Peio.
Tralascio il racconto del lungo sentiero di fondo valle, soddisfatti solo a metà della nostra escursione; su tre cime previste ne avevamo raggiunte solo due: mancava la più ambita, il Cevedale.
Ci ripromettemmo di ritentare la stessa estate. ma poi non se ne fece nulla. Altri progetti e altre vette.
Con la Punta Margherita, sul Monte Rosa, il Monviso (che ho narrato in altra parte), il Cevedale rimane una delle tre vette che per motivi differenti ho sempre visto "dal basso".

A Peio riprendemmo la Lambretta e tornammo a Bergamo, stanchi, mezzo assonnati e soddisfatti solo in parte.

Quella sera, a casa,  non ricordo chi mi tolse gli abiti e mi mise a letto. Mi risvegliai la mattina successiva per recarmi al lavoro con una certa insoddisfazione per l'insuccesso ma, tutto sommato, contento di aver saputo scegliere tra la prudenza e l'incoscienza.

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