Il dopoguerra


L’immediato dopoguerra



La mia famiglia abitava in Città Alta, definita in dialetto dagli “indigeni” la Sità, in contrapposizione alla Città Bassa chiamata Borg (il borgo). I colli a nord e la  cinta muraria veneta costituivano un confine entro il quale ci si sentiva sicuri, avulsi dal crescente traffico cittadino.
In questo “paradiso” i ragazzi e le ragazze si sentivano sicuri, scorazzando a frotte nei vicoli e sui prati della Fara, luogo che nel medioevo ospitava la casa del boia e il ceppo delle esecuzioni. In epoca successiva il prato si era ricoperto di erba e, per noi ragazzi, un luogo di giochi e d’incontri.
La mia casa era situata in via Porta Dipinta, a pochi passi da quel prato  e, conseguentemente, ne ero un assiduo frequentatore. In inverno correvo  sulla neve con una slitta artigianale costruita da mio nonno e durante l’estate godevo il “fresco venticello serale” che spirava dal colle della Maresana.
Le elezioni politiche del 2 giugno 1946, indette per la nomina dei rappresentanti all’Assemblea Costituente, mi riportano alla mente un episodio che vale la pena di ricordare per conoscere il clima di contrapposizione che coinvolgeva anche i più piccoli.
Ero iscritto alla scuola elementare gestita da suore che, qualche giorno prima della consultazione, organizzarono una scampagnata sui colli. Ci portarono in un loro Istituto situato nei pressi del Pascolo dei tedeschi, così nominato perché durante l’occupazione austriaca era il luogo, ove faceva pascolare i cavalli la guarnigione di stanza a Bergamo.
Dopo pranzo ci portarono nella chiesetta e ci chiesero di pregare fervidamente, affinché i nostri genitori “votassero cristianamente” per impedire ai “comunisti” la vittoria elettorale. 
La propaganda politica coinvolgeva persino i bambini! A questo proposito, qualche anno dopo, alle elezioni politiche del 1948, i manifesti affissi sui muri della città assunsero anche carattere fumettistico e caricaturale.
Nel 1945, mio nonno possedeva una latteria in via Porta Dipinta, la “via dei nobili”. Le uniche automobili che vedevo passare erano le loro: quelle dei Pesenti, dei Moroni e dei Suardi. Il mattino presto l’unico rumore era quello del carretto, trainato da cavalli, che distribuiva il latte contenuto in  fusti di alluminio. Il latte veniva versato in contenitori alti e ovali delle latterie pronto  per la vendita al dettaglio.
Prima della distribuzione, mio nonno, scremava la parte superiore del latte, lo versava in un fiasco e, agitandolo, produceva burro da utilizzare in famiglia. Il burro così prodotto veniva conservato in cantina, una vecchia medioevale cantina, fresca e asciutta, in una gabbietta appesa “la móscaróla”
La latteria era gestita da mia nonna e da mia zia e, spesse volte, stavo con  loro. Osservavo le famose “Amlire“con le quali si pagava il dovuto. Biglietti con scritte, per me, incomprensibili che tuttavia avevano corso legale a quel tempo.
Nell’immediato dopoguerra, all’incirca verso le sedici, diciassette, scattava l’interruzione temporanea dell’energia elettrica e il negozio veniva chiuso. Nelle vie si spegnevano le poche e fioche lampade stradali e la città piombava nell’oscurità e nel silenzio. A questo punto era prassi ritrovarci nel retrobottega per fare a quel tempo, il familiare e intimo “happyhour” a base di sardine e polenta. Non abbiamo inventato niente negli anni successivi.
Gli inverni del 1945, 1946, 1947 furono particolarmente freddi e nevosi e le stufe in cucina erano continuamente accese.  Il combustibile preferito era rappresentato dagli “ovuli”, formati da polvere di carbone compressa, più economici del coke, ma sicuramente con un patere calorifico inferiore.

Ma per noi ragazzini l’inverno significava neve e, conseguentemente, divertimento. Sui prati di Città Alta, per le contrade, negli stretti vicoli in discesa era un via vai di slittini artigianali, costruiti con cassette della frutta. Per meglio farle scivolare sulla neve si applicavano, sui sostegni che aderivano al terreno, listarelle di lamiera ritagliate da barattoli vuoti. Il risultato era un veloce quanto fragile veicolo che in molti casi si sfasciava al primo urto facendo rotolare il malcapitato guidatore in mezzo ai cumuli di neve a lato della strada. Poiché, come dicevo poc’anzi, il traffico era inesistente, al massimo si rimediava qualche strappo nei pantaloni e nel maglione o qualche sbucciatura sulle ginocchia; più preoccupante, semmai, era il castigo che ci veniva inflitto dai genitori al ritorno a casa.
La “pista nera” ossia la più lunga e difficile era quella che partendo dal Mercato delle Scarpe ( all’arrivo superiore della funicolare)  correva per tutta via Porta Dipinta, terminando a Porta di San’Agostino.
Il vincitore era considerato da tutti i partecipanti un vero eroe e guardato con rispetto.
In Città Alta c’erano due caserme militari, una nel complesso monastico di San’Agostino con annesso il Distretto Militare, l’atra in Piazza della Cittadella.
La prima era anche adibita ad officina, dove venivano riparati grandi e piccoli automezzi, compresi carri armati e autoblindo. A riparazione eseguita, il collaudo veniva fatto dove ora esiste il campetto di calcio della Fara.

Noi ragazzini assistevamo incuriositi alle manovre di questi “pachidermi” e alle esercitazioni che giornalmente la truppa faceva. Ordini secchi, batter di tacchi, marce ritmate erano il nostro divertimento quotidiano. I pezzi meccanici  inutilizzati venivano gettati al di là delle Mura e la nostra “caccia al tesoro” era quella, scavalcando la cinta muraria all’altezza di San Lorenzo, di correre a rovistare nella ferraglia per recuperare eventuali pezzi con cui costruire i nostri giochi.
All’ingresso dell’altra Caserma, quella della Cittadella, per alcuni mesi dopo la fine della guerra,  a mezzogiorno  venivano distribuite razioni di minestra per i cittadini più indigenti. Accompagnavo spesso un amichetto a ritirare la sua razione e, in verità, l’odore di questa  improbabile zuppa mi dava un senso di nausea; ma per qualcuno era l’unico modo per sfamarsi.
In via Osmano, nel palazzo Pesenti oggi di proprietà  Trussardi, era collocato il Comando Inglese.  Con un amichetto recuperammo un elmetto inglese e uno italiano ( non riuscimmo mai a trovarne uno tedesco ),  con il rottame di un affusto di mitragliatrice recuperato sotto il bastione di Porta Sant’Agostino e con alcune lampade sfuggite al saccheggio dell’8 settembre al Distretto Militare,  giocavamo alla “guerra” sul prato della Fara.
Giochi di ragazzini cresciuti “nel caos della guerra” ancora ingenui  sulle tragiche conseguenze e sui lutti che quella follia collettiva aveva portato.
Il 1945, oltre alla “Liberazione” ricevetti anche un altro regalo da mia madre: il 21 giugno nacque Carlo, Giuseppe, Libero oltre che fratello un compagno di giochi per molti anni successivi; ne combinavamo di tutti i colori.