Il Pozzo Bianco tra giochi e religiosità.


Per noi, ragazzi di via Porta Dipinta, “Ol pos bianc”, come lo chiamavamo, era uno spazio di giochi e una miniera di curiosità. Lo spazio del sagrato era l’ideale per il gioco “del sgarèl”, che ho descritto nel capitolo dedicato ai “Giochi”. Due pezzi di legno, il più piccolo appuntito su ambo l’estremità, l’altro usato come mazza.

C’era il battitore che appoggiava quello più piccolo sulla cancellata della Chiesa e con il pezzo più lungo dava un colpo secco cercando di mandare il proiettile il più lontano possibile. I raccoglitori, sparsi sul sagrato, avevano due modi per scalzare il battitore e assegnarsi un punteggio: il primo afferrando al volo il proiettile lanciato, tentativo rischioso per la sua velocità, il secondo raccogliere il proiettile caduto e rilanciarlo verso il battitore cercando di colpirlo sul corpo.
Il battitore rimaneva tale sino a quando uno dei due casi si sarebbe verificato.
Le partite duravano ore ed erano molto combattute.

Un altro gioco era di occupare “ol furtì”, vale a dire il tettuccio erboso sopra la fontana che era all’angolo con via Porta Dipinta davanti alla latteria. Era impossibile far sloggiare gli occupanti perché dall’alto s’impediva qualsiasi tentativo degli avversari. Da quell’osservatorio si poteva controllare l’arrivo dei contendenti e respingerli a sassate o con le frecce lanciate dai nostri archi artigianali.

D’inverno era la discesa ideale per i “slisarole”, ovvero le scivolate sulla neve ghiacciata tenendosi saldamente in piedi.

Da ultimo lo scoppio del carburo fatto inserendolo nel foro centrale di un chiusino di pietra e coprendolo con un barattolo. Si lasciava cadere un piccolo rivolo d’acqua, quanto bastasse per inumidirlo e a far sprigionare il gas che poi, con una fiammella, veniva acceso procurando un fragoroso scoppio e il lancio del barattolo a grande altezza.

Il gioco era molto pericoloso perché il “dinamitardo” che accendesse il gas doveva essere pronto a scansarsi per non subire le conseguenze della fiammata e del barattolo che era scagliato.

Sul lato sinistro della facciata della Chiesa si erge la casa del “Vicare”, il Vicario a quel tempo don. Pierino, che aveva acquistato, già alla fine degli anni ’50, uno dei primi apparecchi televisivi in circolazione e, per noi ragazzi, era l’unico posto, che non fosse un locale pubblico, dove poter assistere ai primi telefilm pomeridiani, oppure al notissimo programma “Lascia o Raddoppia” serale.

In due locali a piano terra, che si affacciavano su via Porta Dipinta e il cui ingresso era possibile da un piccolo cancello a lato del sagrato, era sistemato il teatro dei burattini, la “Baraca del Giupì”, alle cui esibizioni assistevano ragazze e ragazzi e, spesso volte, anche qualche adulto.  S’imitavano le rappresentazioni del Ravasio, uno tra i più noti burattinai bergamaschi, che esercitavano sempre una grande attrazione per piccoli e grandi.



A destra della facciata della Chiesa era situato un Convento di Suore del Buon Pastore che, nei primi mesi del dopoguerra ospitarono le “collaborazioniste”, donne che avevano frequentato i militari germanici durante il periodo bellico. Per questo motivo erano state rasate in testa e difficilmente si avventuravano fuori dall’edificio. Ne ricordo alcune che, per nascondere il loro stato si coprivano con dei foulard stretti sotto il mento. Nonostante quest’accorgimento erano facilmente identificabili.

Il Convento possedeva un’ortaglia molto grande, che da via Porta Dipinta al Viale delle Mura occupava la sommità della collina. Aveva alberi da frutto e un grande vigneto. In autunno le suore vendevano i prodotti raccolti, fichi e uva e, entrando nella portineria del Convento si aspirava un intenso profumo dei frutti depositati e pronti per essere venduti.
La suora portinaia, pesava il richiesto su una vecchia bilancia a stadere e lo consegnava al “cliente” avvolto in un foglio di giornale, ovviamente L’Eco di Bergamo, che credo fosse l’unico letto da loro.

In fondo al sagrato un altro Convento, quello delle suore Orsoline di Gandino che aveva la funzione di pensionato per le ragazze che frequentavano gli Istituti scolastici bergamaschi. In buona sostanza si potrebbe affermare che, il Pozzo Bianco, fosse una piccola enclave del Vaticano … e forse lo è ancora.



Le funzioni religiose si svolgevano abitudinariamente nella Parrocchiale di Sant Andrea, con alcune eccezioni che erano accolte con entusiasmo da noi ragazzini: quelle della Quaresima e della Settimana Santa. Inoltre il Sabato Santo, giorno in cui le campane tacevano era dal Pozzo Bianco che partivamo, muniti di attrezzi di legno rumorosi, per annunciare l’approssimarsi delle funzioni religiose della giornata.

Nel periodo di Quaresima, nel pomeriggio, don Pierino organizzava il “dottrinino”, un incontro con noi ragazzini tra i banchi della chiesa che, dopo i rituali insegnamenti religiosi, si concludeva, da parte sua, con la lettura di alcune pagine di libri di avventura. Il contenuto non era molto dissimile dalle gesta di Sandokan & Co., ed era ascoltato con molta attenzione in attesa del giorno seguente per conoscere il seguito. Racconti a puntate per coinvolgerci con continuità.

Il venerdì sera era prevista la Via Crucis con la piccola processione che all’interno della chiesa passava da “stazione” in “stazione” ricordando l’episodio rappresentato dal quadretto appeso sul muro.

Ma il clou era il Venerdì Santo, con tutta la chiesa addobbata di nero, un grosso e alto catafalco posto in mezzo e il coro delle suore del Convento del Buon Pastore che accompagnavano la funzione cantando inni sacri nascoste dietro le grate poste sopra la porta d’ingresso.

L’atmosfera che regnava il quelle serate e la vista degli affreschi che giganteggiavano dietro l’abside dell’altare maggiore, e che rappresentavano l’Arcangelo Gabriele e i vari Profeti in episodi biblici, era surreale e incuteva una profonda emozione.

Per avvisare le persone della Parrocchia che sarebbero iniziate le funzioni religiose, noi ragazzi giravamo per via Porta Dipinta con degli aggeggi in legno, composti da una ruota dentata che girando emetteva un suono simile al cri cri. Un'altro aggeggio da utilizzare era un asse rettangolare sul quale erano avvitate due maniglie di ferro che sbattendo contro il legno facevano un rumore sordo.

Ma i più ambiti erano i !cri cri" per i quali si estraevano a sorte i nomi dei "suonatori

Un’altra funzione religiosa che frequentavo al Pozzo Bianco era la “Messa prima” il 2 novembre, giorno dei morti. Nonna Adele affermava che quella mattina ci si doveva alzare presto per lasciare “il posto ai morti” e mi accompagnava a messa. Al termine ci si dirigeva nella cripta, accedendo da una piccola porta sul lato sinistro dell’abside, dove, in raccoglimento, davanti ai teschi che c'incuriosivano, si dedicava un pensiero ai propri defunti.

Note storiche:

La piazzetta che funge da sagrato alla omonima chiesa, era anticamente adibita a cimitero della parrocchia: sotto il selciato si trovano tuttora numerose tombe. Nel 1956, durante i lavori per la nuova pavimentazione di via Porta Dipinta, venne trovata, nella parte più bassa dello slargo, sotto il livello stradale, una grande cisterna in pietra (forse il " Pozzo Bianco ") alimentato da un condotto sotterraneo proveniente dalla fontana di Porta Dipinta. Il sagrato aumentò le dimensioni nel XIX secolo quando venne arretrato il muro a nord - ovest appartenente all'orto della casa del Vicario.

Chiesa del Pozzo Bianco

Fondata nell'VIII secolo, venne ricostruita nel XII-XIII secolo e poi di nuovo rinnovata nel Quattrocento, anche se la facciata è novecentesca, confinate con la casa del vicario e decorata, a sinistra, da affreschi cinquecenteschi attribuiti a Giacomo Scanardi.

All'interno, dall'aspetto quattrocentesco, si trova una navata unica con copertura con travi a vista sostenute da arconi ogivali, rivestiti, al pari delle pareti, da affreschi del 1440 e altri più antichi, di gusto bizantineggiante, riscoperti nel 1942.

La cappella a sinistra di quella Maggiore è particolarmente notevole per la presenza delle Scene della vita di Maria di Lorenzo Lotto, che viveva nelle vicinanze e li eseguì nel 1525.

La cappella centrale ha affreschi di Giovan Battista Guarinoni d'Averara (1577), che forse dipinse anche quelli della cappella di destra, mentre la pala d'altare (Madonna col Bambino tra i santi Pietro e Paolo) è di Gian Paolo Lolmo. Sulla parete sinistra della cappella centrale sono tre affreschi di Lucano da Imola, detto Gaggio, con le Storie di san Michele Arcangelo.

Sulla parete destra della navata spicca una Madonna del Rosario e santi di Enea Salmeggia e in controfacciata due affreschi di Antonio Cifrondi: Cristo e l'adultera e l'Ultima Cena.

La chiesa possiede anche una cripta a tre vani, con affreschi a partire dal XIII secolo, tra cui uno posteriore (Madonna in trono e santi) attribuito ad Antonio Boselli.

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