In colonia


Mare e monti

Nel dopoguerra il termine “vacanze” era considerato l’intervallo scolastico estivo, solo i “ricchi” potevano permettersi l’esodo in campagna o al mare.  Per le ragazze e i ragazzi, i cui genitori lavoravano in grosse aziende, rimaneva l’unica alternativa di poter essere accolti nelle “colonie estive”.

In verità prima di poter fruire di questo beneficio sociale si veniva sottoposti a una visita medica in seguito alla quale si decideva se al richiedente era maggiormente indicato il clima montano o quello marino.

Ebbi la fortuna, o la sfortuna secondo il punto di vista, di essere assegnato un anno alla colonia montana di Castione della Presolana e, quello successivo, alla colonia marina di Riccione. Il soggiorno previsto consisteva in quattro settimane comprese tra fine giugno e settembre poiché allora le scuole iniziavano ai primi di ottobre.



Prima di queste due “avventure coloniali” ricordo solo pochi giorni trascorsi con i miei parenti una volta a Brembilla e un’altra a Santa Brigida, piccoli comuni della val Brembana. In particolare rammento il viaggio verso quest’ultima località: in bicicletta, seduto su un seggiolino agganciato al canotto e con mio zio Gerolamo, chiamato famigliarmente zio Momi, che pedalava tutto sudato sulla salita polverosa e con il sole estivo alto in cielo. In quell’estate afosa mia zia Deda, incinta di Adriana, accompagnata da mia mamma, sua sorella, erano ospiti presso una famiglia di Santa Brigida e mio padre trascorreva alcuni giorni presso una casa vacanze riservata ai dipendenti della Dalmine, azienda presso la quale lavorava, sempre in quella località.
Tornando alle mie esperienze nelle “colonie estive”, la prima e forse la più traumatica, fu quella a Castione della Presolana.
Era la prima volta che trascorrevo così tempo lontano dalla famiglia e la malinconia non tardò a farsi sentire.
Si partiva da Bergamo stipati in vagoni della vecchia ferrovia della val Seriana, il percorso si snodava sul fondo valle tra paesini e campi coltivati; la pendenza non era eccessiva e solo nell’ultimo tratto, subito dopo la stazione di Ponte Nossa il convoglio arrancava lentamente lungo le pendici del Pizzo Formico per raggiungere l’altopiano di Clusone passando attraverso la bellissima abetaia di Ponte Selva. Arrivati alla stazione di Clusone, eravamo caricati su autobus e trasportati a destinazione. La colonia era situata su un’altura che dominava il paese di Castione a fianco di un vallone sul cui fondo scorreva un torrente impetuoso. Poco prima dell’edificio della colonia era situata una chiesetta nella quale ogni domenica mattina assistevamo alle funzioni religiose.
L’edificio, nella sua forma di moderno castello, con un enorme torrione all’interno del quale erano situati i refettori molto luminosi le cui finestre spaziavano sulla vallata, era molto bello e altrettanto era il parco che lo circondava con una pineta fitta e odorosa di resina. Il cibo era buono e abbondante, il mattino dopo colazione si giocava in gruppi sul piazzale antistante alla colonia mentre il pomeriggio, dopo il rituale riposino e la tradizionale m”merenda” a base di pane e marmellata di mele cotogne, conservata e solidificata in piccoli panetti, si procedeva alla passeggiata in pineta cantando le solite canzoncine imparate a scuola (La pecora nel bosco, Le ciliegie, ecc., ecc.).
La sera, quando ci si ritirava nelle camerate e ci s’infilava nei lettini, era il momento più malinconico: nessun bacio della mamma, nessun buffetto del papà, solo immerso nel silenzio totale con il fioco lumicino che traspariva dietro la tenda che ci separava dalla vigilatrice. E silenziosamente i lacrimoni scendevano a bagnare le guance.
Una domenica mattina, assistevo alla messa quando a un tratto mi sentii osservato; mi girai e sull’ingresso della chiesetta vidi mio padre: aveva fatto una “sgroppata” in bicicletta per farmi visita. Iniziai a piangere di gioia e smisi solo quando riuscii, al termine della messa, a buttargli le braccia al colle. Trascorsi la più bella domenica della mia vita. La sera, dopo la partenza di mio padre, la malinconia mi assalì ancor più forte.
L’anno successivo fui scelto per la vacanza marina in quel di Riccione. Era la prima volta che vedevo il mare!

Dimentico delle crisi di nostalgia, provate l’anno precedente nel mio soggiorno montano, pregustavo la nuova avventura. Immaginavo il mare, la grande distesa di acqua e la spiaggia sabbiosa, i bagni e i “castelli di sabbia”.
Partii dalla stazione ferroviaria di Bergamo in una serata di fine agosto. C’era la tradizionale fiera di Sant Alessandro e, mentre il treno si allontanava, vedevo dal finestrino i vari stand della fiera, l’otto volante e la ruota gigante e come sottofondo sentivo la musica del film “Il terzo uomo”. Custodivo gelosamente una stecca di torrone che mio padre aveva acquistato su una bancarella e che mi aveva regalato per il viaggio.
Bergamo, Milano, Riccione; il viaggio durò tutta la notte sonnecchiando sui sedili di legno delle vetture di terza classe. All’alba, raggiunta Riccione fummo stipati su filobus e avviati a destinazione. Ricordo la prima immagine del mare, una distesa azzurra senza fine, nella nebbiolina del mattino.
L’edificio era enorme, di fronte al mare, separato dalla spiaggia dalla litoranea e con sottopassi che permettevano di raggiungerla senza incorrere in pericoli di attraversamento.
La permanenza iniziò con la prevista consegna dei nostri abiti utilizzati per il viaggio e la “vestizione” con la divisa “coloniale”: giacchetta a quadretti e pantaloncini corti, ma la sorpresa fu la requisizione della mia favolosa stecca di torrone, ritenuta possibile fonte di…indigestione.
La prima volta che andai sulla spiaggia iniziai la ricerca di conchiglie. Raccolsi un tesoro di gusci vuoti di “arselle”, resti della rastrellata mattutina che i bagnini facevano per ripulirla dalle cartacce e altri residui del giorno precedente. Il mare era una tavola azzurra increspata leggermente da piccole onde che s’infrangevano a riva con rumore monotono. Al largo alcune piccole imbarcazioni si stagliavano contro il cielo.
Al contrario di altri miei compagni non sapevo nuotare e la prima volta che entrai in acqua m’immersi lentamente sino alla cintola, non osai andare oltre. Osservavo la sabbia sott’acqua che smuovevo con i piedi e alcuni piccoli pesciolini che tranquillamente si agitavano tra le mie gambe.  Attorno le grida di coloro che saltando agitavano l’acqua spruzzando i vicini.
Un giorno, ascoltando due vigilatrici che parlavano di una località chiamata San Marino, chiesi inopportunamente se quella era la meta della passeggiata pomeridiana. Mi guardarono ironicamente e compresi, ricordando alcune nozioni di geografia, di aver posto una domanda sciocca: San Marino distava alcune decine di chilometri da Riccione.
Tutto sommato la permanenza fu meno traumatica rispetto a quella del soggiorno a Castione della Presolana; i bagni, i giochi sulla spiaggia e, forse, l’esperienza dell’anno precedente mi aiutarono a soffrire meno la lontananza dalla famiglia.
Fu il mio secondo e ultimo anno di vacanze in colonia, era il mese di settembre del 1949