La Prima Comunione


Tra la fine del 1945 e la primavera del 1946 iniziai a frequentare i corsi di catechismo in preparazione della prima comunione gestiti da suore che avevano il Convento nella nostra Parrocchia. Erano le stesse religiose che ho ricordato nel capitolo riguardante le Elezioni Politiche del 1946 e, quindi, terrorizzate dalla possibile vittoria del Fronte Popolare.
 
Il “corso” oltre a trattare argomenti di “dottrina cristiana” era inframmezzato da preghiere e consigli per i familiari affinché il pericolo dei “Cosacchi in Piazza san Pietro” fosse scongiurato.
Contestualmente a tale frequenza iniziai ad avere i primi “sensi di colpa” per i presunti “peccati” nei quali ero incorso e che potevo incorrere in futuro. Anche le naturali curiosità di un “ragazzino”, alla luce delle catastrofiche pene infernali, diventavano un peso che avrei potuto togliermi solo confessandole al sacerdote con relativo pentimento e la promessa di redimermi.
Poiché in famiglia certi argomenti non erano trattati, era naturale riproporli ai compagni e alle compagne di giochi, ricevendo in cambio informazioni spesse volte distorte e attinenti più alla “differenza” tra maschi e femmine che a quella che oggi definiremmo “educazione sessuale”. Il “senso del pudore”, nell’ambito familiare, era molto sentito e l’atteggiamento dei genitori era di coprire con un’aureola di mistero anche le cose più logiche e naturali. Non ricordo di aver mai visto mia madre con abbigliamento “intimo” e  la mia curiosità aumentava.
Ricordo che un giorno convinsi una mia amichetta coetanea a mostrare il suo “sesso”. Ci appartammo dietro i battenti di un portone e ambedue calammo le mutandine, ci osservammo e andammo nuovamente a giocare. Il soddisfacimento di quella “curiosità” divenne, nel periodo della frequentazione del corso di catechismo, un peso “da confessare”. Con la terminologia che allora c’insegnavano, divennero “atti impuri”. Nella classificazione erano considerati peccati mortali, soggetti, conseguentemente, alle severe punizioni post mortem. Prima potevi incorrere in alcune malformazioni fisiche: cecità, paralisi, demenza.


Alla confessione, il sacerdote faceva inevitabilmente una domanda: “Quante volte?”, il che ti faceva pensare che era più importante la “quantità” rispetto alla “qualità”. La recidività era considerata un’aggravante al “reato” compiuto e la pena (penitenza) conseguente ne avrebbe tenuto conto?
Questo quesito mi si ripropose mentalmente negli anni successivi ogni volta che mi accostavo al Sacramento della Confessione, poi decisi di  “dare le dimissioni” e mi liberai da tale pensiero.

Infine trovavo ingiusto e discriminatorio il fatto che le femmine si potessero confessare dietro la grata del confessionale, mentre noi maschi dovevamo inginocchiarci  vis à vis con il sacerdote.
La “parità” dei diritti non è mai stato un piatto forte dei cattolici.

La cerimonia della “prima comunione” era un evento festeggiato sia dai catecumeni, sia dalle rispettive famiglie, e la comunità parrocchiale faceva da “contorno”. Ragazzi con abitini da cerimonia, ragazze con abiti lunghi da “spose”. Si entrava in chiesa disposti su due file, a destra i maschi, a sinistra le femmine, prendendo posto nei banchi loro riservati. Nonostante “l’allenamento” fatto nei giorni precedenti, ingurgitare l’ostia consacrata senza masticarla era un “affare” da contorsionisti e la nostra buona volontà era seriamente messa alla prova.
Al termine della funzione religiosa, in un locale attiguo alla chiesa, ci attendeva un piccolo rinfresco a base di cioccolata calda e qualche biscotto, in attesa, a casa, del rituale pranzo da “giornata di festa”.
Anche il sottoscritto aveva un abitino da cerimonia color grigio chiaro con camicia bianca e cravattina, il tutto nuovo di zecca. E qui ci scappò l’avventura!
Dopo pranzo, mentre genitori e parenti erano ancora seduti a tavola discorrendo, chiesi il permesso, che mi fu accordato tra la generale disattenzione, di scendere in cortile a giocare ancora vestito di tutto punto.      Il mio obiettivo era raggiungere gli altri amichetti al prato della Fara, in quell’anno ancora attrezzato con i carrelli utilizzati per i lavori di riempimento del vallone (chiamato “ol fupù”).

Naturalmente giocando su quei macchinari sporcai sia l’abito sia la camicia bianca con la certezza che a casa ne avrei pagato le conseguenze. Facile previsione: al rientro subii una severa punizione da parte dei miei genitori che concluse in modo inglorioso la mia giornata di festa.