La prima vetta


Nei primi anni ’50 avevamo affittato, per il periodo estivo, alcune camere in un’abitazione di Cusio. Le escursioni, all’inizio, si limitavano a raggiungere i Prati d’Avaro e  percorrere i vari sentieri che raggiungevano zone ricche di ciclamini o funghi.

Quando ci fu proposto di salire il Pizzo dei Tre Signori, la cui cima si ergeva a 2554 metri sul livello del mare, feci il diavolo a quattro affinché l’avventura si realizzasse. Il Pizzo era la montagna più elevata della zona e il percorso prevedeva la sosta notturna nei ricoveri per pastori nella Valle d’Inferno. Una prospettiva molto allettante per un ragazzino di poco più di undici anni.

Accompagnati da tre conoscenti del luogo, proprietari dell’abitazione che avevamo affittato, partimmo un pomeriggio di una bellissima giornata di agosto.

Il percorso prevedeva, da Cusio, la salita al Colle della Maddalena, la discesa a Ornica e la risalita della Valle d’Infermo per raggiungere, a sinistra della Bocchetta d'Inferno, la vetta.

Mio padre era dovuto rimanere a casa per accudire mio fratello Carlo, a quell’epoca ancora troppo piccolo per poterci accompagnare, per cui con le tre “guide, mi accompagnò mia madre, anche lei appassionata di montagna.

La sera trovammo rifugio sotto un grosso masso, chiuso nelle pareti più esposte, da un muretto di pietre quanto bastava per mantenere all’interno un certo tepore. La legna che i pastori avevano accumulato all’esterno, bastava per accendere un piccolo fuoco che, con il suo tepore, ci fece compagnia nella nottata fresca e umida.


Alle prime luci dell’alba, il sole non era ancora sorto all’orizzonte ma la luce era sufficiente per indicarci le tracce di sentiero da seguire, riprendemmo il cammino e quando finalmente il disco giallo sorse all’orizzonte, eravamo in prossimità della vetta.

Lo spettacolo era meraviglioso grazie alla limpidezza dell’aria mattutina e all’assenza di foschia all’orizzonte. Ai nostri piedi una piccola parte del lago di Como, più lontano la sagoma della città di Milano e del Duomo, più lontano ancora e tutt’attorno la cerchia delle Alpi dal Monte Rosa al Bernina. Uno spettacolo mozzafiato, eravamo stati fortunati.

Dopo un breve spuntino, ci apprestammo a scendere percorrendo il versante opposto, quello lecchese, con l’intenzione di raggiungere il Rifugio Grassi e risalire dal Lago d’Inferno la valle, raggiungere nuovamente la Bocchetta d'Inferno e rifare il percorso fatto per la salita.

Purtroppo mancava l’allenamento necessario per la lunghezza del percorso e a metà percorso le difficoltà conseguenti si presentarono. Pertanto fu presa la decisione di “tagliare” decisamente verso il Lago d’Inferno e ridurre il programma originale.

A questo punto ci trovammo sopra un “cengione” molto stretto a picco sul lago in una spiacevole e pericolosa posizione. Con estrema cautela lo percorremmo senza porre lo sguardo verso il baratro che ci avrebbe accolto in caso di caduta.


Ricordo ancora lo sguardo di mia madre mentre attraversavo la parte più esposta e pericolosa del percorso.

Dicono che la fortuna aiuta gli incoscienti e, in questo caso, credo che svolse molto bene il suo compito, passammo tutti con cautela ma senza problemi il “cengione” e silenziosamente raggiungemmo la Bocchetta di Trona per riprendere il vecchio e tranquillo sentiero di ritorno.

Avevo conquistato la mia prima vetta e la prima lezione di “escursionismo prudente”: conoscere prima d’intraprendere.

Nessun commento:

Posta un commento