La scuola

Dalle suore Orsoline


Alla fine del mese di aprile del 1945, la mia famiglia ritornò a Bergamo. Mia madre era in fase avanzata di gravidanza e voleva aver vicino i suoi famigliari. A maggio, avvicinandosi la presunta data del parto, decise che avrei dovuto frequentare la scuola materna (l’asilo, come si definiva a quel tempo) e, nonostante il mio disappunto, m’iscrisse presso le suore di via Solata (Città Alta).  La mia “frequenza” durò pochissimo, con scuse varie riuscii a starmene a casa e con gli amichetti ripresi a frequentare il mio adorato pratone della Fara.
A fine settembre, tuttavia, nolente o volente fui iscritto alla prima elementare. Questa volta presso la scuola, sempre gestita dalle suore Orsoline di Gandino, di via Masone. Ovviamente a quel tempo non c’erano trasporti scolastici e sia con la bella sia con la brutta stagione dovevo recarmi a piedi, e da solo, da via Porta Dipinta a via Masone, passando da via Pignolo, dove alcune vetrine esponevano dolciumi e giocattoli che inevitabilmente attiravano la mia attenzione.

Proprio a causa della mia curiosità accadde un incidente che avrebbe potuto avere gravi conseguenze.
Camminavo sul lato sinistro di via Pignolo, quando sul lato opposto vidi una vetrina con esposti nuovi prodotti- Attraversai la via correndo proprio mentre scendeva un ciclista (fortunatamente non era un’automobile) e fui investito. Quando mi ripresi, ero a casa, steso sul letto e con un bel buco in testa.

Naturalmente non ricordavo quanto successo e manco come avessero fatto a portarmi a casa mia.
Ma tornando alla mia prima “esperienza” scolastica ricordo perfettamente il nome dell’insegnante che mi accompagnò sino alla classe quinta: suor Lucia Diamante, di corporatura più larga che alta, burbera ma simpatica.

L’attività scolastica iniziava alle otto del mattino e terminava alle sedici del pomeriggio, pertanto a mezzogiorno il pranzo era consumato nel “refettorio” della scuola. Le suore fornivano il “primo” e la “frutta”, il resto si doveva portare da casa in una scatoletta metallica che veniva riscaldata. Il “primo” consisteva in una minestrina contenente pasta di piccole dimensioni (stelline, semini, ecc.), e la frutta in una mela. Sempre uguale ogni giorno per cinque anni, Da allora detesto la minestrina e la mela.

Il secondo, che preparava mia madre, consisteva in una frittatina o qualche fettina di carne.
Portavamo un grembiule bianco che al termine della giornata lasciavamo appeso nel corridoio; il giovedì era vacanza, ma in compenso si frequentavano le lezioni anche il sabato. La cartella, di finta pelle marrone, conteneva il “sussidiario”, un quaderno a righe, uno e quadretti, una piccola riga di legno e un astuccio, sempre in legno, con il coperchio scorrevole. All’interno dell’astuccio una penna con i relativi pennini (ve n’erano di varie forme), una matita e una gomma. Il calamaio in cui intingere il pennino era inserito nel banco di legno.


I miei primi quaderni erano pieni di “aste” verticali e oblique e, in seguito, di vocali e consonanti: ogni cancellatura era seguita da una sgridata. Anche a casa dovevamo eseguire i “compiti” controllati regolarmente il giorno successivo dalla “maestra” in classe con i relativi elogi ai soliti “secchioni” (chissà perché quelli con le famiglie più agiate) !
Che avessero famiglie benestanti si deduceva il giorno di Santa Lucia. Nella ricorrenza esibivano regali che avrebbero fatto invidia a qualsiasi bambino dell’epoca. Non portai mai i miei regali a scuola: non avevo molto da esibire.

Adiacente all’edificio scolastico vero e proprio c’era il convento, residenza delle monache, con bellissimi chiostri e un grande giardino. Nelle ore di ricreazione si faceva un giretto nel giardino intonando canti religiosi e sostando per l’immancabile preghiera presso una piccola grotta, in cui era inserita una statua della Madonna; dopo ci si recava nel chiostro a giocare e cantare filastrocche.


In via Masone c’era un passaggio pedonale che raggiungeva l’ingresso principale della scuola situato in via Brigata Lupi. In fondo a quest’ultima via esisteva il cantiere di demolizione del vecchio ospedale di San Marco, dove oggi sorge l’hotel omonimo. Qualche volta all’uscita della scuola si andava con i compagni a sbirciare tra le transenne del cantiere. Ricordo i tetti dei vecchi edifici, non ancora abbattuti, con dipinto un cerchio bianco e la croce rossa nel mezzo.

Da via Brigata Lupi, una scorciatoia raggiungeva viale Vittorio Emanuele, quasi all’altezza di Casa Stampa. Era bellissimo percorrerla in autunno con gli alberi maestosi dalle foglie con i colori tipici della stagione. Ma nella stagione invernale la evitavamo: era troppo buia e a noi ragazzini metteva paura.

Ricordo di averla percorsa una sola volta d’inverno; aveva nevicato ed era bello lasciare le nostre peste nella neve fresca nel silenzio della nevicata. Come facilmente prevedibile arrivai a casa con le scarpe e i piedi fradici subendo i conseguenti rimbrotti di mia madre.
Le nevicate significavano l’avvicinarsi di Santa Lucia, portatrice di doni e dolciumi anche se i doni erano commisurati alle finanze famigliari e i dolciumi consistevano in qualche mandarino, poche caramelle e pochissimi cioccolatini.

Ma era pur sempre una gran festa!