Nonna Teresa




La nonna paterna
Nonna Teresa, nonna paterna, abitava a Curno nella casa di famiglia. Era rimasta vedova molto giovane, suo marito, nonno Carlo, era perito in un incidente ferroviario all’età di trentacinque anni, lasciandola sola con sei figli: tre maschi, mio padre Francesco e i miei zii Alessandro e Angelo e tre figlie, Luigina, Marianna e Terenzia.
Con mia nonna viveva sua cognata nubile, da noi nipoti chiamata zia Rosa.
Far crescere sei figli, all’inizio del novecento, penso sia stata una fatica enorme. Mi raccontarono che nonna Teresa, la domenica mattina aiutata dai figli maggiori, trainava un piccolo carretto nella piazza della chiesa parrocchiale e vendeva caramelle e zucchero filato ai fedeli che andavano a messa.
I figli maschi impararono ben presto a fare i garzoni per aiutare la famiglia. Mio zio Angelo lavorò presso un fabbro ferraio e, in seguito, continuò in proprio l’attività in uno stabile di Ponte San Pietro. L’altro zio, Alessandro, negli anni trenta acquisto un cavallo e un carretto e funse da “corriere” tra Ponte San Pietro e Bergamo; mio padre lavorò come garzone per un certo periodo presso una macelleria di Piazza Pontida, luogo ove avvenne l’incidente che gli causò la rottura scomposta della gamba per la quale dovette subire un intervento chirurgico, a quei tempi all’avanguardia, con la ricostruzione dell’arto immettendo un osso prelevato dall’altra gamba. A causa di questo incidente e alla conseguente inabilità a lavori pesanti, fu mandato in Seminario, come si usava fare a quel tempo, sino a completare gli studi liceali.
Le figlie Luigina e Marianna si sposarono, mentre l’ultima, Terenzia, entrò in convento nell’ordine delle Suore Orsoline di Somasca.
Al tempo dei miei ricordi, nonna Teresa con zia Rosa e zio Alessandro rimasto celibe, vivevano con la famiglia di zia Luigina e suo marito Bepo, nella grande casa di Curno. Al nostro arrivo zia Rosa estraeva dalla tasca del suo grembiulone nero un caramellose duro e gibboso che succhiavamo con soddisfazione per almeno mezz’ora.
Ambedue, lei e mia nonna, odoravano il tabacco mantenuto fresco in una tabacchiera di sughero tenuta in tasca. Il caramellone aveva immancabilmente il sapore del “Santa Giustina” (la marca del tabacco che acquistavano).
Un particolare episodio accadde nell’autunno del 1944, dopo il bombardamento dello Stabilimento di Dalmine. Mio padre scioccato da quell’avvenimento che lo vide miracolosamente salvo, non volle più risiedere a Bergamo in quanto riteneva la città passibile di attacchi aerei alleati. Decise pertanto di portare la famiglia in campagna e per la precisione presso i nostri parenti di Curno ove soggiornammo per qualche mese prima di trasferirci fino al termine della guerra a Treviolo.
Durante la permanenza a Curno assistetti all’episodio che portò mio zio Giuseppe, fratello di mia madre, alla morte. Lo zio lavorava presso la Caproni di Ponte San Pietro e il giorno che ebbe un attacco di appendicite, in bicicletta si diresse verso casa, a Bergamo. Strada facendo lo colse un forte dolore tanto da essere in difficoltà a pedalare. Si fermò, pertanto, presso l’abitazione dei miei zii di Curno, nostra residenza provvisoria. Mia madre vedendolo in quello stato, chiamo immediatamente un’Ambulanza con la quale venne trasportato all’Ospedale Maggiore di Bergamo. Purtroppo, nel frattempo, era subentrata la peritonite e, nonostante l’intervento chirurgico, zio Pino morì tra atroci dolori. Fu l’ultimo ricordo del fratello di mia madre.
L’edificio in cui risiedevano era costituito da due corpi separati, da un lato l’abitazione e dall’altra la stalla, il fienile e il ricovero per il carretto. Nel mezzo un ampio cortile ombreggiato da una pergola di vite di uva americana. Contro la parete che univa i due corpi dell’edificio, erano montate le gabbie dei conigli.
Quanti giochi in quel cortile e sul fienile. Accompagnato da mio fratello, spesso d’estate passavamo qualche giorno dalla nonna e dagli zii. La sera quando zio Alessandro, nel dopoguerra, tornava a casa dal lavoro, era un divertimento salire sul suo motocarro (che nel frattempo aveva sostituito carretto e cavalli), e giocare imitando l’autista e il rumore del motore.
Con mio fratello e con i due cuginetti Ettore e Carlo facevamo spesso escursioni nei campi di granoturco circostanti. Si accedeva da una stradina che, superata la linea ferroviaria Bergamo – Ponte San Pietro, s’inoltrava sino al Polaresco. Facevamo scorpacciate di more che maturavano sui filari di gelsi che fiancheggiavano la stradina in terra battuta. Sullo sfondo le colline di Città Alta, di San Vigilio, della Bastia e di Mozzo.
Per raggiungere l’abitazione della nonna e degli zii utilizzavamo il Tram che da Bergamo portava a Ponte San Pietro.
La fermata era alle Crocette e, dopo una breve strada che attraversava il passaggio a livello della ferrovia, giungevamo a destinazione.

Nel mese di giugno arrivava la trebbiatrice. Nell’aia di un cascinale, poco distante dalla casa dei miei parenti, iniziava il rito della trebbiatura. Il grande ”macchinone”, dipinto di rosso, era l’attrazione di noi, piccoli curiosi, che assistevamo alle attività dei contadini.  Con i forconi inserivano i fasci di frumento nella botola in alto, e iniziava la separazione della paglia dalla granella tramite la ventilazione e scuotitura della paglia.

Dal retro della trebbiatrice usciva il frumento, raccolto in bidoni, e successivamente sparso su teloni, al centro dell’aia, per asciugarsi al sole, e le “balle” di paglia che venivano utilizzate come strame per la stalla delle mucche.

L’aria era nebbiosa a causa della pula del frumento e dal polverone sollevato dal motore che faceva azionare, tramite grosse cinghie di cuoio, il “macchinone”.
Al termine delle vacanze estive, prima che iniziasse la scuola, era programmata la vendemmia in un’ortaglia che zio Alessandro aveva acquistato. Sette filari di uva da vendemmiare con la quale gli zii producevano il vino.
A fine raccolta era tradizione pasteggiare a polenta e coniglio, preparato con dovizia dalle due zie, Luigina e Marianna, che gestivano il pranzo familiare. Non ho più provato il sapore di quel coniglio, ma forse era il sapore della gioventù.
La nonna scomparve un paio di anni prima della morte di mio padre e la ricordo sempre là, sulla porta con il suo timido sorriso, pronta a fare la sua annusata di tabacco per vincere l’emozione.


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